SPACE HOUSE di Valerio D’angelo apre un varco sulla piazza di Santa Maria in Trastevere e ci trasporta in un’altra realtà. Come si evince dal titolo, la mostra si lega indissolubilmente al concetto di spazio, inteso sia nella sua accezione astronomica che architettonica data la natura site-specific, e approfondisce delle intuizioni provenienti dalla fisica quantistica. Per comprendere questo connubio in termini semplicistici, immaginiamo di trovarci di fronte a un distributore automatico di palline speciali e imprevedibili. Tirandone fuori alcune ognuna si comporta in maniera diversa da quella che ci potremmo immaginare: una potrebbe rimbalzare davanti a noi e allo stesso tempo muoversi orizzontalmente, un’altra assumere sembianze difformi da quando la si osserva a quando no, e così via. Questo accade nella fisica quantistica con lo studio delle particelle e nella pratica di Valerio D’Angelo con i riflessi che si generano negli specchi dicroici delle sue installazioni.
L’accesso alla mostra è permesso attraverso un portale che pone lo spettatore al centro di una nuova dimensione. Con il passaggio lo spazio vibra, si altera e riflette immagini distorte, dando la prova che siamo una sola possibilità tra infinite possibilità. L’installazione diventa un luogo intermediario di moltiplicazione delle forme e dei colori, della verità. Valicata la soglia, si accede agli ambienti di Supernova dove una luce fredda rivela le strutture, a volte colossali altre intangibili, di elementi che si presentano come porte d’imbarco verso altre galassie. La pellicola dicroica, materiale prediletto da D’Angelo, si esibisce dapprima come entità fluida ora come organismo che assume sembianze diverse in base al supporto che lo ospita, che sia una colonna, un mobile veneziano o un proiettore. Il susseguirsi di opere-portali priva il nostro universo, quindi noi esseri umani, della centralità di cui godiamo portando invece l’attenzione verso l’ignoto, oltre i confini della percezione. La nostra immagine subisce uno sdoppiamento, si frammenta in mondi dislocati nei quali diventano possibili e probabili svariate esistenze.
Nell’ultimo capitolo della mostra, appare un’immagine che sembra essere osservata al microscopio: è la sintesi della teoria del cervello di Boltzmann. Attraverso lo studio di lenti e luci appare la proiezione di un micro frammento di realtà, trasposizione del cervello fluttuante che genera ciò che percepiamo come reale. In questo caso la teoria stessa viene capovolta, non è più il creatore a dare forma e proiettare, bensì siamo noi ad osservare la sua proiezione in un movimento lento e ipnotico.
Tutto viene messo in discussione, noi e l’intero universo. Anche se solo per un secondo.
Statement Valerio D’Angelo
La mia ricerca artistica si focalizza sull’elemento del riflesso, inizialmente inteso come gesto narcisistico che permette di isolare ed esaltare la propria immagine e aprire a nuove forme di percezione di sé. Approfondendo questa indagine, la seconda dimensione a cui si ha accesso attraverso il riflesso ha acquistato sempre maggiore importanza, arrivando a essere percepita come una realtà altra, dislocata e ugualmente presente. Questo pensiero ha assunto sfumature inquietanti, seminando nella mia coscienza la sensazione che l’immagine riflessa non fosse solo frutto di un nostro meccanismo ottico, ma una realtà che ci osserva a sua volta. Siamo noi il frammento, il doppelgänger di altre realtà.
Le riflessioni su dimensioni parallele e portali d’incontro, capaci di mettere in dubbio la centralità della nostra esistenza, mi hanno portato ad avvicinarmi alla fisica quantistica. Mi sono lasciato ispirare dall’idea, secondo cui la nostra realtà è molto improbabile e possibile solo perché tutte le altre realtà possibili sono tali: siamo un’improbabile possibilità di infinite possibilità. Banalmente, ma anche no, è ciò che viene trattato nella serie animata Rick and Morty.
Certo è che nel cosmo di tutte le infinite dimensioni noi non siamo al centro. Le altre realtà non sono di certo proiezioni della nostra, bensì – più probabilmente – noi una piccola sfumatura di realtà molto più probabili. Nello specchiarmi mi piace pensare che potrei essere io stesso il frutto di un riflesso. Divento frammento di una realtà possibile, non più al centro dell’universo. Gli specchi sono pensati come gate di
comunicazione tra diverse realtà, dove più che scrutarne una nuova ci si rende conto di esserne una a nostra volta, magari osservata per un istante. Il lessico delle mie installazioni si allinea all’immaginario cinematografico e fantascientifico degli anni Ottanta-Novanta e prende spunto dalla narrativa distopica post-apocalittica, dove tutto viene capovolto e la linearità della nostra esistenza viene spezzata.
La fisica probabilistica ci rende consapevoli di verità assurde che trattiamo quasi come un gioco. Voglio prendere le probabilità della fisica quantistica, trasferirne la consapevolezza e riportarne l’esperienza.